domenica 31 maggio 2020

Stupidità tecnologica

(utilizzo sconsiderato e di massa di oggetti semi inutili)

 

Ho già avuto modo di evidenziare in alcuni precedenti articoli che la nostra società non è certo avara di novità e di nuove tendenze. Spesso utili, talvolta superflue se non addirittura inutili. Ma nonostante tutto i popoli si uniformano, le accettano come assodate, le erigono al ruolo di indispensabili.

In questo mondo dove tutti rincorrono sempre il nuovo, sembra quasi che nessuno possa ormai vivere senza l’ultimo modello di smartphone, tablet, navigatore satellitare o quant’altro.

Non è mia intenzione polemizzare inutilmente su stili di vita, passioni e mode del momento, ma vorrei mettere l’accento su un aspetto che mi meraviglia e mi sconvolge. Prima di far ciò voglio però coinvolgervi in un breve ricordo, spero piacevole, che ci porterà ad una riflessione.

Ricordo ancora con nostalgia che la mia prima auto aveva le manovelle per sollevare i cristalli, così come tutte all’epoca. Il dramma maggiore si verificava quando, durante la guida, si intendeva aprire o chiudere il cristallo della portiera lato passeggero, quando quest’ultimo non c’era! Ci si doveva piegare sulla destra, tenendo il volante con la mano sinistra e la testa alta quanto bastava per vedere la strada, allungare il braccio destro, spesso comprimendo il fianco sulla leva del cambio, contemporaneamente roteare la mano sulla manovella fino al raggiungimento della posizione desiderata. Quando si guidava in condizioni impegnative, magari nei tornanti, era meglio desistere dall’effettuare l’operazione; la stessa poi diventava complicata se nel frattempo si verificava la necessità di cambiare rapporto, magari mentre eravamo impelagati nel traffico cittadino. Sicuramente più agevole, ma comunque scomoda, risultava l’operazione da eseguire sul cristallo lato conducente.

Quando decisi di sostituire l’auto acquistandone una nuova, fra le varie novità contenute vi erano di serie gli alzacristalli elettrici. Effettivamente era un gran cambiamento, terminavano finalmente gli scomodi e pericolosi contorsionismi “in velocità” e finiva per sempre la noiosissima roteazione della manovella. Senza distogliere gli occhi dalla strada e senza dovermi improvvisare contorsionista da circo, potevo muovere a piacere i miei cristalli semplicemente con la manina sinistra; il sistema era semplice: l’interruttore aveva due posizioni, una per sollevare il cristallo ed una per abbassarlo. Tenendolo premuto si faceva avanzare il cristallo, levando il dito se ne interrompeva immediatamente il movimento, “congelandolo” nella posizione raggiunta al momento.

Era una conquista! La tecnologia ci veniva in aiuto con un sistema semplice, efficace e comodo, che si voleva di più? Io pensavo che andare oltre non avrebbe avuto senso perché era un meccanismo semplicemente perfetto e perfettamente semplice, che funzionava ed andava bene così.

Alcuni anni dopo acquistati la mia terza automobile e capii che questa volta la tecnologia era stata utilizzata per migliorare un sistema che a me già appariva perfetto (ma forse non era così). Infatti qualche progettista buontempone aveva ideato l’alzacristalli evoluto (oggi lo chiamerebbero alzacristalli 2.0) che consisteva nello stesso interruttorino che già conoscevamo ma con una variante: era diventato automatico! Sì, proprio automatico! Il nostro buontempone doveva aver pensato che tenere il ditino pigiato sull’interruttore, magari per qualche lunghissimo secondo, finché il cristallo non raggiungeva la posizione desiderata, doveva essere estremamente scomodo, direi insopportabile, ergo bisognava liberare la tribù dei conducenti da questo dramma! D’altronde avevano già dovuto sopportare per lunghissimi anni la famosa manovella, ora meritavano un riscatto. In che modo? Semplice: il nostro interruttorino andava pigiato una prima volta così da avviare il movimento del cristallo, il nostro ditino poteva così riposarsi per un buon mezzo secondo (a volte anche di più…), poi si doveva pigiare di nuovo per interrompere il movimento del cristallo quando questi aveva raggiunto la posizione desiderata. Era proprio così! Il risultato? Era difficilissimo fermarsi nella posizione voluta, soprattutto quando si intendeva tenere il cristallo “un filino aperto” per consentire un piccolo passaggio d’aria: complicato fermarlo prima del fine corsa.

Ma, udite udite, l’avanzare della tecnologia a servizio degli alzacristalli non si è fermata qui: infatti dopo alcuni anni sono arrivati sul mercato gli alzacristalli (che chiameremo 3.0) che prevedono una doppia posizione sia per sollevare che per abbassare. Infatti se voglio avanzare il cristallo alla vecchia maniera (a me tanto cara) tengo il dito pigiato in una posizione di mezza corsa, se invece voglio l’automatismo completo pigio il tastino a tutta corsa! Risultato? A me sembra una inutile complicazione che non ha prodotto alcuna migliorìa ma, semmai, ci rende più complicata una operazione che prima era semplice ed efficace. Domanda: ma siamo sicuri che tutto ciò fosse necessario? Siamo certi che non sarebbe stato opportuno fermarci alla “versione 1.0” e tenercela così?

Termino qui il breve racconto lasciando a dopo eventuali commenti e deduzioni in merito.

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Qualcosa di simile, ma di estremamente più elaborato, è avvenuto in tutti i campi della tecnologia! Chi di noi non ha nelle sue tasche uno smartphone dal quale risulta sempre più difficile separarsi? In quanti di noi utilizzano il proprio smartphone per esigenze reali (un tempo si telefonava e si inviavano gli sms) e in quanti abusano dello stesso trascorrendo tempi interminabili dietro app, spesso inutili, impegnando tempo e risorse alla “vita reale”?

Che dire delle lavagne elettroniche che oggi la fanno da padrone in tantissime scuole? La vecchia cara e romantica lavagna in ardesia non andava più bene? Vietato sporcarsi le mani col gesso? Ah, beh, scusate, dimenticavo che qualcuno poteva anche essere allergico al gessetto…

E come giudicare le mandrie di idioti che camminano per strada o guidano l’auto senza distogliere lo sguardo dallo smatphone? Ah, beh, scusate, oggi chi non è perennemente online, connesso e visibile al mondo intero può mai definirsi “normale”?

Menomale che esistono le app che ci tengono costantemente aggiornati sulle previsioni meteo e sulla loro evoluzione! Non vorremo mica essere colti da un improvviso acquazzone senza averlo previsto per tempo? Non sia mai…

Che pensare delle file interminabili di “pupazzi viventi” davanti ai negozi di tecnologia alla prima commercializzazione di un nuovo prodotto o all’uscita di una nuova relase di uno smartphone?

E che dire dei social network e del loro utilizzo sconsiderato? Ormai, se non pubblichi sulla tua pagina social la fotografia del piatto prima di iniziare a desinare non sei nessuno. Se non hai un numero considerevole di amici o di like sei uno sfigato. E via così discorrendo.

E potremo dilungarci ancora su un’infinità di altri numerosi ed inutili oggetti, accessori, gadget, app e quant’altro che hanno la pretesa di renderci la vita apparentemente più comoda, ma che in realtà sono finalizzati a se stessi e ad implementare i fatturati dei produttori.

Oggi la tecnologia è di fatto entrata a gamba tesa nella nostra vita, imponendosi prepotentemente in tutti campi, rivoluzionando totalmente il nostro modo di vivere, costringendoci ad un adeguamento sistematico e progressivo, ad un utilizzo feroce di nuovi oggetti futuribili e falsamente utili. Ma, quel che è peggio, è la trasformazione e adeguamento delle nostre abitudini e convinzioni nei confronti di un utilizzo che riteniamo essere “normale”! Insomma, è in atto un plagio delle nostre idee a favore dell’ingresso sconsiderato ed eccessivo di una mole di oggetti assolutamente inutili o, quantomeno, non migliorativi della nostra esistenza.

Insomma, assistiamo ad un processo di uniformazione dei popoli, di appiattimento di contenuti, di schiavizzazione tecnologica, di sottomissione a regole e costumi imposte da criteri commerciali che non migliorano la nostra qualità della vita.

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Giusto per sorridere un po’ mi piace ricordare la bufala della penna spaziale americana, finita tanti anni fa sui media di tutto il mondo. Si racconta che la NASA avesse ideato una penna biro col serbatoio d’inchiostro pressurizzato, al fine di poter scrivere in orbita, quindi in assenza di gravità. Il serbatoio in pressione sarebbe stato azionato da un piccolissimo motorino elettrico che dosava la giusta pressione affinché l’inchiostro potesse fuoriuscire. Diversamente, in assenza di gravità l’inchiostro non sarebbe uscito e quindi la biro non avrebbe funzionato. Gli ingegneri Sovietici, dovendo affrontare lo stesso problema, fornirono i propri astronauti di una semplice matita!

Questo racconto, sicuramente inventato da qualche buontempone (Sovietico?), evidenzia come molto spesso si è portati all’utilizzo di un “eccesso di tecnologia” per realizzare oggetti perfettamente inutili, la cui funzionalità può essere tranquillamente (e spesso meglio) assicurata da metodi tradizionali più semplici ed efficaci.

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Non voglio annoiarvi con un lamento continuo ed una spietata critica all’uso di tecnologie inutili, ma vorrei piuttosto sperare che un domani l’umanità si “svegli” e provi a decidere da sé cosa sia utile e cosa no, provando a dire “anche no, grazie” alla mole quotidiana di offerte pubblicitarie di prodotti semi inutili.

Ma vogliamo scommettere che in quel caso probabilmente ci verrà proposta una app per capire se un oggetto può essere utile o meno…?

mercoledì 26 ottobre 2016

Una tragedia come un’altra

Pubblicato in data 26 ottobre 2016 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/


Purtroppo, capita spesso a tutti noi di assistere attoniti alle notizie dei media che ci informano di varie tragedie che si sono consumate in qualche parte del mondo. Secondo una vecchia regola, tanto più l’evento è vicino, tanto più suscita la nostra meraviglia e risveglia in noi sentimenti di compassione e di interesse. Spesso queste emozioni vengono ridotte e livellate dalla mole di informazioni che ci vengono trasmesse, sempre più numerose, diffuse e continue, creando una sorta di assuefazione mediatica.
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Poco più di sette anni fa (per l’esattezza era aprile del 2009) una parte dell’Abruzzo ed in particolare il suo capoluogo furono sconvolti da un terremoto dalle conseguenze devastanti che produsse nell’immediato 309 vittime. Un’intera città, vivace e dinamica, con un centro storico meravigliosamente bello e vivo, fu trasformata completamente dall’evento, annientata e messa in ginocchio, costretta ad intraprendere il percorso della ricostruzione, con la speranza ed il tentativo di tornare presto alla normalità. Dopo sette anni la ricostruzione dell’Aquila è ancora in corso e la città presenta tutt’ora evidenti ferite che richiedono ancora tanto impegno e tempo.
Agli inizi di quest’anno il mio lavoro mi ha visto coinvolto in questo processo di mega ricostruzione, lento e laborioso, dove ognuno di noi, a vario titolo, dà un piccolo contributo affinché la città possa tornare, pienamente, a vivere. Impegnato profondamente e con dedizione alla ricostruzione di un tassello della città, non ho potuto non notare ed apprezzare la dignità silenziosa degli Aquilani, la speranza di riacquistare la serenità perduta e la forza d’animo con la quale hanno coraggiosamente tentato di riprendersi la propria vita. Credo che, qualunque sia il mio futuro, lavorativo e personale, non potrò mai scordare questo grande insegnamento di un popolo che, colpito da una tragedia abnorme ha lottato silenziosamente per un ritorno alla vita normale.
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Siamo ormai abituati al fatto che le tragedie si ripetono e che, in particolare, gli eventi sismici nel nostro Paese sono una consuetudine. Purtroppo la notte del 24 agosto, a circa cinquanta chilometri da L’Aquila, c’è stato l’epicentro di un altro devastante terremoto. Io stesso ne sono stato testimone, abbastanza distante da non subire conseguenze, svegliato in piena notte da un vibrare inquietante di pavimento e mobili. Non vi descriverò le mie sensazioni del momento, di sicura impressione, per rispetto dei tantissimi aquilani che ho conosciuto in questa magica città, i quali hanno vissuto la tragedia del 2009 e mi hanno raccontato emozioni, sensazioni e paure di allora, ovviamente neppure lontanamente paragonabili alla mia.
Ma torniamo a noi. Infatti non voglio carpire la vostra attenzione sulla mia esperienza aquilana, né voglio soffermarmi su dettagli tecnici che hanno arricchito il mio patrimonio di conoscenza professionale, ma vorrei semplicemente parlare di come l’essere umano interpreta, distorce e adatta la realtà che gli si prospetta.
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Al verificarsi delle tragedie, come sempre accade, si risvegliano i pseudo-tuttologi, sedicenti esperti che non esitano a divulgare la loro presunta scienza infusa su argomenti di più disparata natura. Ecco che allora i giudizi, le sentenze da bar e le critiche all’operato di chicchessia si ergono con magnanimità nei confronti di tutti. Coloro hanno una soluzione per tutto e non esitano a sputare giudizi ed opinioni folli.
Ricordo che in occasione del terremoto dell’Aquila, un personaggio che ricopriva un’importante posizione pubblica, per la quale avrebbe fatto meglio ad esimersi da rilasciare interviste a caldo sull’argomento, raccontò in TV che “gli avrebbero riferito” che in alcuni casi le opere in cemento armato sarebbero crollate perché il calcestruzzo sarebbe stato confezionato con l’acqua di mare! Orbene, io non credo sia necessario essere dei tecnici per capire che queste dicerie (probabilmente mezzo secolo fa in parte vere) vadano contestualizzate e valutate di volta in volta. Infatti L’Aquila dista quasi due ore dalla costa e portare l’acqua di mare per confezionare il calcestruzzo sarebbe stato decisamente molto più costoso che utilizzare quella potabile! Ergo, neppure l’ultimo degli imprenditori, per quanto lo si voglia immaginare delinquente, farebbe una cosa del genere! E allora perché parlare tanto per dar fiato alle corde vocali? Ancor meno nel caso in cui si ricopre un ruolo pubblico di alto livello e si rischia di essere visti da tanti come un punto di riferimento!
Recentemente, dopo il sisma del centro Italia, un noto personaggio televisivo ha spergiurato, in un’intervista, che adeguare gli edifici esistenti, rendendoli sicuri nei confronti dei terremoti, avrebbe un costo di circa 200 €/mq. Ma che significa? Intanto è sciocco parlare in generale (citando delle medie? E se anche fosse una media, studiata da chi? In che modo e in quali situazioni?). Vi sono dei casi (certo, non frequentissimi) in cui per adeguare un edificio è praticamente meglio demolirlo che ricostruirlo, in altri si possono avere costi unitari anche esageratamente alti, difficilmente immaginabili da un profano (pensate ad esempio ad un pregiato edificio storico); altre volte adeguare una semplice abitazione, anche di fattezze costruttive banali, può costare qualche migliaio di €/mq. E vi sono ovviamente delle situazioni nelle quali il costo unitario è simile a quello dichiarato dal nostro fenomeno in TV. Ma allora con quale criterio scientifico ci si permette di sciorinare idiozie pure utilizzando in malo modo i media, soprattutto approfittando della loro notorietà pubblica?
Di certo non vi tedierò con l’immenso elenco di situazioni in cui sono state riferite simili informazioni, che negli ultimi tempi si moltiplicano in maniera esponenziale.
Costoro non si rendono conto dell’impatto mediatico che suscitano e della cattiva informazione che divulgano. Io non obbietto sulla loro buona fede, ma dovrebbero comprendere che le notizie vanno date in maniera completa (se le conoscono), altrimenti è meglio tacere per evitare di confondere i destinatari delle loro elucubrazioni.
Insomma, il principio è sempre lo stesso: scambiarsi opinioni folli va bene al bar, ma quando si ricoprono dei ruoli di evidente impatto mediatico sarebbe meglio evitare di divulgare il proprio pensiero, soprattutto se non si hanno le idee chiare nel merito (ma tant’è che più si ignora e più si ritiene di conoscere). Parafrasando un vecchio detto, mi verrebbe da dire: “chi sa fa, chi non sa va in TV a dire sciocchezze”!
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Ma, tralasciando la disinformazione, ad opera di questo o quel personaggio più o meno noto, la principale polemica che imperversa in questo periodo riguarda la mancata prevenzione, i mancati “miracoli” da parte di tecnici, amministratori, imprese e proprietari, l’accusa feroce ad opera di mandrie di solerti inetti che sciorinano insulti verso tutti. Sì, infatti, come sempre accade dopo una tragedia verificatasi a seguito di un evento naturale (sisma piuttosto che alluvione od altro) parte nell’immediato, lenta ed inesorabile, la ricerca al colpevole.
Più che giusto, diciamo tutti noi in coro, se qualcuno ha sbagliato deve pagare, chi non sarebbe d’accordo?
Ma ciò che sconvolge non è la pretesa di giustizia, dovuta e sacrosanta, ma piuttosto la certezza di aver individuato a priori il colpevole, interpretando in maniera confusionale i fatti e citando interpretazioni normative senza neppure sapere di cosa si parli.
Il mio fine non è quello di fomentare polemiche, accrescendo il già numeroso esercito di coloro che parlano ma, semmai, meditare sul fatto che il nostro bellissimo Paese è strano; noi italiani siamo gente dal cuore d’oro ma abbiamo la presunzione di conoscere e di saper fare, retaggio di un glorioso passato. E intanto, parliamo di ciò che non sappiamo , riempiendoci la bocca di frasi ad effetto, aizzando inutilmente le folle, conquistando i consensi di mandrie incapaci di pensiero proprio.
Quando accadono simili tragedie, sarebbe necessario che ognuno di noi smettesse di ergersi a giudice ma facesse, più semplicemente, ciò che sa fare rispettando sempre il dolore delle vittime. Diffondere opinioni non supportate da conoscenze scientifiche e certe, è dannoso non soltanto per chi ascolta ma anche per le categorie che rappresentano. Cavalcare la popolarità trasferendo informazioni tendenziose è controproducente e pericoloso per l’immagine del nostro Paese e mette in discussione il diritto di giustizia.
Piuttosto che alimentare inutili discussioni forse sarebbe più opportuno pensare di più e parlare di meno: diversamente qualunque catastrofe diventerà banalmente una tragedia come un’altra.

giovedì 22 settembre 2011

Il valore di mercato, questo sconosciuto!

Pubblicato in data 22 settembre 2011 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/





Sarà capitato a tutti di interrogarsi su quale sia il valore di un determinato immobile. Magari perché vorremo vendere una vecchia casa ereditata dai nonni e ci chiediamo quanto potremmo ricavarne, oppure perché siamo curiosi rispetto ad alcune abitazioni dall’aspetto lussuoso. Più frequentemente ci poniamo tale quesito perché vorremmo acquistare casa e dobbiamo fare i conti con il nostro budget. In questo caso ci viene proposto (sarebbe meglio dire imposto) il prezzo dal venditore, spacciandolo come “il valore dell’immobile”. Ma sarà poi corretto? E se non lo è, perché è sbagliato? E di quanto?
Inutile dire che, escluse poche eccezioni, il “valore dell’immobile” ci appare spesso spropositato e non solamente in relazione alle nostre finanze. Infatti restiamo sovente perplessi, se non addirittura basiti, a fronte di richieste economiche che ci appaiono decisamente troppo elevate rispetto alle nostre ragionevoli previsioni.
L’obbiettivo di questa chiacchierata è quello di rendere più chiari alcuni concetti, spesso disattesi, che ci aiuteranno a capire che la cifra richiestaci dal venditore sia molto spesso ampiamente superiore al reale valore di mercato dell’immobile. Voglio subito chiarire che non ho nessuna pretesa di proporre presunte soluzioni ad un sistema certamente penalizzante per i potenziali acquirenti, ma vorrei solamente cercare di esplicare e rendere noti alcuni importanti dettagli, con l’unico intento di rendere più consapevoli gli ipotetici compratori.
Nel cominciare desidero mettere l’accento su un particolare che si verifica sovente, non solamente in periodi di incertezza economica: molti immobili vengono messi in vendita, per un determinato importo stabilito dal venditore, ma restano invenduti per periodi lunghissimi, anche anni; se il venditore non accetta di rivedere le proprie richieste a volte capita di non riuscire a vendere mai il suo immobile. Questo aspetto ha particolare valenza e ci porterà a delle importanti conclusioni.
Ma andiamo per ordine e soffermiamoci su alcune brevi premesse; cercherò di non tediarvi evitando tecnicismi e concetti prolissi.
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Quando procediamo con la stima di un immobile occorre tenere ben presente la conoscenza tecnica dell’immobile, la conoscenza economica del mercato di riferimento, la conoscenza dello scopo della stima. A seconda dello scopo della stima individuiamo differenti “valori” dell’immobile. Non voglio soffermarmi sulle differenze concettuali ma voglio concentrare la mia attenzione al caso più comune, ossia la stima al “valore di mercato”. Infatti questo è il caso in cui si procede alla stima di un immobile, con lo scopo della compravendita, solitamente per l’utilizzo diretto dello stesso. Quando ad esempio acquistiamo un appartamento per andare a viverci con la nostra famiglia oppure una casa al mare per le vacanze, siamo interessati al valore di mercato.
Per concludere le nostre premesse, vediamo cosa si intende nelle discipline economiche ed estimative per “prezzo” e per “valore di mercato” e quali sono le differenze.
Quando parliamo del prezzo, ci riferiamo ad una compravendita già avvenuta! Il prezzo rappresenta la quantità di denaro che è stato speso per acquistare quel bene. Il prezzo è un dato storico! Quando un immobile è sul mercato, non è quindi corretto parlare di prezzo da pagare! E’ invece corretto farlo quando la compravendita è avvenuta, indicando col prezzo quanto abbiamo effettivamente pagato! Ricordiamo che nelle discipline economiche il prezzo di un bene è generato dal rapporto fra domanda ed offerta sullo specifico mercato di riferimento.
Quando parliamo di valore di mercato, ci riferiamo ad una compravendita che non è ancora avvenuta e peraltro non è detto che avvenga! Il valore di mercato è il più probabile prezzo che potrebbe essere pagato per l’acquisto di quel bene, qualora avvenisse una compravendita: si tratta quindi di “prevedere” quale sarà il “prezzo più probabile” in caso di compravendita! Ecco perché l’individuazione del valore di mercato richiede un giudizio di stima, cioè una previsione! Il valore di mercato quindi è un valore non certo (perché non è ancora avvenuto) ma stimabile (perché potrà avvenire), che dipende dall’andamento del mercato, nonché da altri fattori intrinseci dell’immobile.
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Concluse le premesse, torniamo ora alle nostre riflessioni.
Il valore di mercato fluttua inevitabilmente con l’andamento del mercato e quindi lo stesso immobile assume valori diversi al trascorrere del tempo, non necessariamente in maniera crescente. Abbiamo detto che tale valore rappresenta il più probabile prezzo che potrebbe essere pagato per l’acquisto dell’immobile qualora si verifichi una compravendita. Ergo deve esistere una reale potenzialità di vendita dell’immobile.
A questo punto possiamo tornare alla riflessione di prima, dove dicevo che sovente accade che degli immobili in vendita restino invenduti per periodi molto lunghi. Ciò significa che in quello specifico mercato di riferimento, in quel particolare periodo storico, quell’immobile non ha la potenzialità di vendita per l’importo richiesto dal venditore. Cioè la cifra richiesta è superiore al valore di mercato! Se l’importo richiesto fosse il reale valore di mercato, nel breve periodo si giungerebbe verosimilmente all’individuazione del potenziale acquirente ed alla conclusione della compravendita. Infatti si tratta di prevedere l’ipotetico prezzo di compravendita, ossia quello che rende uguale il livello della domanda ed il livello della offerta  
(rappresentato graficamente dal punto di incontro delle due funzioni). E’ quindi evidente che il prezzo è quello che instaura un sistema di equilibrio tra domanda e offerta. Analogamente accade al valore di mercato, che ne rappresenta una sua previsione.
Insomma l’individuazione del valore di mercato (stima) deriva da una precisa previsione di un evento che si verifica (vendita immobile) per un determinato importo economico (prezzo di compravendita).
Se a quella stima non segue la vendita dell’immobile, oppure questa avviene per un importo sostanzialmente differente, allora il valore di mercato è stato stimato in maniera non attendibile.
Vanno poi evidenziate le solite eccezioni; facciamo un esempio. Supponiamo di mettere in vendita una casa al mare, ragionevolmente stimata, ad esempio, per 300.000 €. Immaginiamo poi che arrivi uno sceicco arabo (tanto per citare qualcuno che può permettersi extralussi) che ritiene la casa adatta ai suoi sogni, magari perché prospiciente la sua spiaggia preferita, oppure perché la vuol donare in regalo a qualcuno; poniamo che offra una cifra decisamente spropositata, tanto per strafare poniamo un milione di euro! Bene, dovremmo forse dedurne che quest’ultimo è il reale valore di mercato? Direi proprio di no, ci mancherebbe! Infatti tale offerta è un fatto estemporaneo, assolutamente casuale e statisticamente irripetibile.
E’ inoltre importante notare quanto segue:
Il fatto che le richieste economiche avanzate dai venditori siano sistematicamente sopra la soglia del reale valore di mercato, porta ad un effetto collaterale paradossale: il reale valore di mercato di un immobile, viene alterato da questa realtà e tende a migrare verso importi più alti, condizionando l’andamento stesso del mercato. Questo si spiega col fatto che nel tempo i potenziali acquirenti tenderanno, entro una certa misura, ad adeguare la loro disponibilità verso impegni di spesa sensibilmente maggiori, causa l’uniformarsi delle richieste tendenzialmente “al rialzo” dei venditori. Così facendo, gli acquirenti, accettando di pagare dei prezzi “sopra la soglia”, contribuiscono ad alterare l’andamento del mercato, favorendo un rialzo dei prezzi degli immobili.
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Proviamo ora a ricapitolare alcune conclusioni:
a)      Il valore di mercato deve tener conto della reale potenzialità di vendita di quell’immobile, in quel particolare momento storico. E’ un valore destinato a fluttuare nel tempo in quanto dipende sensibilmente dall’andamento del mercato. Non si tratta quindi di un valore intrinseco, né può essere considerato un valore tout court di quell’immobile.
b)     Se un immobile messo in vendita resta invenduto per periodi molto lunghi, significa che quell’immobile non ha potenzialità di vendita per quell’importo richiesto dal venditore, in quel particolare momento storico. Ciò è sintomo del fatto che l’importo richiesto sia superiore al valore di mercato del momento!
c)      Nello studio del mercato di riferimento, occorre prestare attenzione alle eventuali compravendite avvenute in via eccezionale a prezzi anche molto differenti da una stima oculata. E’ necessario quindi valutare in maniera severa gli eventuali scostamenti dell’avvenuto prezzo di vendita dal mercato reale. Ossia, nell’individuazione del valore di mercato, non possiamo considerare gli episodi estemporanei e casuali se riteniamo siano statisticamente irripetibili.
d)     Richieste economiche superiori al valore di mercato, spesso condizionano al rialzo il valore di mercato di immobili simili nell’immediato futuro. Vale a dire che se le richieste dei venditori sono uniformate tendenzialmente “al rialzo” nel tempo, i potenziali acquirenti tenderanno, entro una certa misura, ad adeguare la loro disponibilità verso impegni di spesa sensibilmente maggiori. Il valore di mercato degli immobili quindi tende realmente ad aumentare, forte della acquisita potenzialità di vendita.
Da quanto esposto al punto d), se ne deduce che le richieste “fuori mercato” dei venditori, alla lunga, finiscono paradossalmente per “allineare” il mercato alle loro richieste, premiando i venditori che disattendono il reale valore di mercato! Questo non è ovviamente un processo irreversibile e tiene conto anche della fluttuazione del mercato.
Questo circolo vizioso è di fatto una caratteristica propria di alcuni mercati (non solo immobiliari) e viene a sua volta condizionata da cause esterne. E’ significativo riflettere ad esempio sul fatto che periodi di crisi finanziaria e di incertezza economica portano a rallentare o arrestare questo processo.
Processo che potrebbe essere arrestato, o addirittura condizionato ad andare in controtendenza, da un atteggiamento concordato e compatto degli acquirenti. Ma questa purtroppo è un’utopia!
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Voglio concludere queste brevi riflessioni con un sorriso.
Quando leggiamo degli annunci relativi a vendita di immobili, occorre prestare la dovuta attenzione ai dettagli, anche lessicali, per evitare di incorrere in fuorvianti errori interpretativi. L’ultimo sfacelo grammaticale l’ho notato qualche giorno fa sulla vetrina di una agenzia immobiliare, dove spiccava in primo piano il seguente annuncio per la vendita di un appartamento:
………. ZONA CENTRALE, VENDESI APPARTAMENTO CON ASCENSORE DI 140 MQ, BUONA ESPOSIZIONE, DUE BAGNI, ……….
Interpretando alla lettera, un dubbio potrebbe sorgere spontaneo: a chi diamine potrà servire un ascensore di 140 mq?

martedì 14 giugno 2011

Nucleare: l’inesistenza del “rischio zero”

Pubblicato in data 14 giugno 2011 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/




Il dilemma delle centrali nucleari, della loro sicurezza e della loro affidabilità, ci viene sovente esposto come legato in maniera indissolubile alla “tipologia tecnologica” delle centrali stesse (di prima, di seconda, di terza generazione…). Tutto ciò è indubbiamente realistico, ma viene abilmente utilizzato dai politici, pro o contro il nucleare, per sostenerne o criticarne la necessità; il tutto credo avvenga (almeno in questo caso) in ragionevole buona fede.
Ma come può il cittadino avere una propria opinione sul reale pericolo del fenomeno se poi anche gli esperti hanno spesso pareri contrastanti? Per rendersene conto è sufficiente andare su internet e visionare la miriade di articoli, interviste e videointerviste anche a studiosi di sicura competenza nel merito per scoprire l’assoluta discrepanza dei loro pareri.
E allora che fare? A chi credere? Che provvedimento adottare per il bene del Paese (e del mondo intero…)?
Premesso che se anche non avessimo altri elementi di paragone, il fatto stesso di non averli dovrebbe essere, a mio avviso, elemento di diniego all’utilizzo del nucleare. Tutto ciò almeno fino a nuovi studi scientifici che ci facciano propendere, grazie alle migliori conoscenze, verso l’opportunità di utilizzo o di abolizione definitiva.
Vorrei in questa sede tentare di fare il punto della situazione, senza farmi trascinare dall’emotività che deriva dagli eventi recenti, cercando di esprimere un parere scevro da dannose presunzioni e aperto alle critiche costruttive.
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In tutti i processi industriali e in tutti i prodotti della tecnologia avvengono dei progressivi miglioramenti costruttivi che derivano dai nuovi studi e che vertono, ovviamente, anche e soprattutto nell’esame delle esperienze (positive o negative) del funzionamento dei modelli “precedenti”. In estrema sintesi tutto ciò rappresenta “banalmente” l’evolversi della tecnologia!
Gli esempi sono un’infinità in tutti i campi della tecnologia. Per citarne uno pensiamo ai progressi raggiunti in campo aeronautico dai tempi dei fratelli Wright ad oggi. Quante inevitabili vittime vi sono state però in quel settore?
Verrebbe da chiedersi se e quando finisce la sperimentazione e se e quando possiamo considerare un prodotto definitivamente sicuro. La risposta, mi spiace deludere i lettori, è: MAI!
Prima di spiegare questo aspetto, sicuramente controverso che starà facendo sobbalzare sulla sedia anche qualche esperto e tanti sedicenti tali, voglio però raccontarvi una breve storiella.
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Tanti anni fa, quando ero un giovane studente universitario, alla prima lezione di un corso specialistico, si presentò in aula il docente che noi tutti conoscemmo per la prima volta. Nel suo discorso introduttivo alla disciplina a noi ancora sconosciuta, pronunciò una frase che lasciò di stucco un po’ tutti noi, studenti eredi di un biennio durissimo con un imprinting a vocazione fortemente matematica, con una mente non ancora rimodellata dagli insegnamenti che caratterizzano la mentalità tipicamente ingegneristica. Insomma, eravamo ragazzi abituati a pensare in modo razionale, dove due più due era pari a quattro e tanto bastava. Ecco, questo eravamo. Il docente ad un certo punto pronunciò una frase che, semplificata, poteva riassumersi così:
“Se non capitasse mai un incidente aereo, se non affondasse mai nessuna nave, se non crollasse mai alcun ponte, significherebbe che noi ingegneri non abbiamo capito molto dei metodi di calcolo che utilizziamo”.
Noi tutti restammo sbigottisti, convinti come eravamo che il prodotto tecnologico derivante da rigorosi studi scientifici fosse “sicuro” per antonomasia. In realtà il nostro buon docente, con la sua espressione un po’ “ad effetto” volle solamente prepararci all’introduzione del concetto di probabilità e di “rischio accettabile” che, sia pure con modalità anche molto differenti fra loro, interessa sempre le metodologie di calcolo, praticamente in tutti i campi della tecnologia.
Niente paura, non intendo certo dilungarmi in tali disquisizioni scientifiche e probabilistiche, ma voglio solamente prender spunto dalla frase del professore per chiarire un concetto, lasciato in sospeso qualche riga sopra, dove dicevo che un prodotto non possa definirsi MAI definitivamente sicuro.
Tutto ciò ha un senso ed una sua valenza se ci mettiamo d’accordo sul significato dell’aggettivo “sicuro”. Se, come credo avvenga nella mente di tanti, il concetto di sicurezza rappresenta la “certezza matematica” che un evento non accada mai, allora non esistono e non esisteranno mai tecnologie e prodotti assolutamente “sicuri”! Se accettiamo che vi sia una probabilità, sia pure remota, in alcuni casi remotissima, che un evento si verifichi, allora abbiamo adattato il concetto di sicurezza ad un mondo reale, siamo passati da un concetto puramente teorico ad un’applicazione pratica, con tutte le implicazioni scientifiche che ciò comporta.
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Alla luce di quanto detto, va da se che non esistono tecnologie assolutamente sicure che ci confortino con un livello di “rischio zero”. Allora per quale motivo dovremmo utilizzarne alcune e scartarne altre? Mi rendo conto che ai più potrà sembrare barbaro ma, la discriminante è semplicemente il numero di vittime che tale tecnologia può provocare in caso di incidente. Mi spiego meglio introducendo alcuni esempi.
Se si rompe il cavo che tiene sospeso un paracadutista al suo paracadute, quante vittime si possono provocare? Risposta: UNA!
Se si rompe la rubinetteria della bombola di un subacqueo che è immerso a parecchi metri sott’acqua, quante vittime si possono provocare? Risposta: UNA!
Se si verifica una rottura al sistema frenante di un’automobile, quante vittime si possono provocare? Risposta: Nei casi più gravi, se vengono coinvolte altre auto o dei passanti, anche qualche decina!
Se si verifica un guasto ad un piccolo aereo biposto, quante vittime si possono provocare? Risposta: Nei casi più gravi, se il veivolo precipita in un luogo abitato, anche parecchie decine, forse centinaia.
Se si verifica un guasto ad grosso aereo di linea con diverse centinaia di passeggeri a bordo, quante vittime si possono provocare? Risposta: Nei casi più gravi, se il veivolo precipita in un luogo abitato, parecchie centinaia, forse qualche migliaio.
E se crolla un ponte? O un palazzo? E se affonda una nave passeggeri?
Se poi tali eventi si verificano non per un incidente ma per volontà dell’uomo, come accade nel caso di attacchi terroristici, la “probabilità che l’evento si verifichi” segue ovviamente altre logiche, difficilmente prevedibili, anche in termini probabilistici.
Che cosa cambia nei vari esempi appena fatti?
E’ cambiata semplicemente la portata delle conseguenze a cui si va incontro in caso di incidente! In tutti i casi citati non si ha la certezza che l’evento non accada ma, al contrario, si è consapevoli del fatto che l’evento possa verificarsi e che in tal caso si avranno delle vittime. Tanto maggiore è la portata del danno, tanto minore è il rischio che viene accettato in fase di progettazione/manutenzione. L’accuratezza che si pone nella manutenzione delle parti meccaniche di una automobile non è la stessa che si pone nella manutenzione delle parti meccaniche di un aereo passeggeri. I coefficienti di sicurezza utilizzati nel dimensionamento di una importante struttura (ponte, diga, edificio, ecc. …) non sono gli stessi che si utilizzano nel dimensionamento del telaio di un ciclomotore. Tutto ciò può sembrare barbaro ai profani ma è il frutto di scelte di differenti livelli di sicurezza da adottare in funzione del numero di vittime che si rischia di produrre in caso di incidente!
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Veniamo ora al problema del nucleare.
In caso di incidente in una centrale nucleare quante vittime si possono provocare, considerando anche coloro che nel corso dei decenni successivi subiranno gli effetti posticipati ed indiretti dell’incidente?
Beh, forse basterebbero pochi gravi incidenti in aree diverse del pianeta per modificare completamente la vita sullo stesso, con conseguenze disastrose di difficile immaginazione.
Oltre agli incidenti dovuti agli errori del’uomo, consideriamo ora il caso (purtroppo tutt’altro che irreale) di attentati terroristici (11 settembre docet). Una centrale nucleare (o alcune contemporaneamente) che vengono fatte oggetto di attentati terroristici provocherebbero un numero così elevato di vittime ed uno stravolgimento della vita sul pianeta le cui conseguenze sfuggono a tutti e non sono quindi del tutto prevedibili!
Certo, diranno in tanti, ma quando gli USA e l’URSS si “sfidavano freddamente” a suon di testate nucleari, il pericolo era simile, forse anche maggiore. Vero! Inoltre il pericolo, sia pure molto più contenuto, è ancora elevato, infatti non conosciamo né il potenziale residuo, né altre informazioni circa l’ubicazione. Oggi inoltre, sono tante le nazioni che possiedono armamenti bellici di tipo nucleare, quindi, sia pure per altre vie e con altri utilizzi, il pericolo di disastro nucleare è sempre reale. Ma questo è un altro problema che segue altre logiche e, ad ogni modo, non può essere una motivazione valida per giustificare l’accettazione di ulteriori rischi.
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Ecco, tornando al problema delle centrali nucleari, io credo che questa breve riflessione possa aiutarci a valutare meglio il rischio al quale si va incontro in caso di incidente (remoto) o di atto terroristico (purtroppo più probabile) che coinvolga una centrale nucleare. Ciò che ne deriva non giustifica, a mio avviso, la scelta di utilizzo dell’energia nucleare.
Va anche detto che l’abbandono del nucleare da parte di una nazione, a poco serve se la maggior parte delle altre nazioni, magari confinanti, lo adottano. Ma questa non può essere la discriminante! Semmai potrebbe essere un primo passo da compiere per dare il “la” con la speranza che in futuro siano sempre più numerosi i Paesi che decideranno di abbandonare tale tecnologia e di investire maggiormente su altre fonti energetiche.
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Alla luce del recente esito referendario che, per la seconda volta in Italia, fa propendere gli italiani per la scelta di diniego all’utilizzo di centrali nucleari, mi sorge però spontanea una riflessione:
La nostra nazione dovrà dimostrare di essere all’altezza della situazione decidendo di investire massicciamente nello studio delle fonti di energia alternativa, sia in termini di perfezionamento di quelle esistenti che nella sperimentazione di nuove. Credo infatti che solamente in tal modo la scelta matura e coraggiosa che gli italiani hanno appena manifestato alle urne, possa essere realmente di input per l’avvio di un processo virtuoso che attualmente vede l’Italia come capofila in una scelta non facile ed i cui esiti sono ancora incerti e nebulosi. Ora c’è infatti da superare la sfida più difficile!

venerdì 29 aprile 2011

Il vilipendio della lingua italiana

Pubblicato in data 29 aprile 2011 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/



E’ ormai da tempo che assistiamo allo sfacelo della scuola italiana, dell’università e della cultura in generale. Ogni livello scolastico ha subìto un processo di semplificazione degli insegnamenti ed un impoverimento della qualità, con poche eccezioni riservate ad alcune istituzioni scolastiche che ancora “resistono”.
In mezzo a tale confusione, circondati da sedicenti esperti di ogni genere, col moltiplicarsi di individui di millantata cultura, anche la conoscenza e la competenza è ormai “autocertificata”. E’ così che i cambiamenti lessicali, una volta ad esclusiva ed indiscussa formalizzazione di istituzioni e di accademici referenziati, oggi vengono proposti e sciorinati da chiunque, da eserciti di ignoranti che si ergono ad esperti ostentando un pedigree autoreferenziato.
Tempo fa scrivevo che la nostra società non è avara di nuove tendenze e di abitudini alle quali i popoli si uniformano. Ecco che da qualche tempo, complici anche alcuni usi deviati della tecnologia, si è imposta una nuova tendenza grammaticale: l’utilizzo della k!
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Tutto cominciò con la semplificazione delle operazioni di scrittura degli sms. Col ditino che pigia sulla microscopica tastiera del telefonino, era quasi scontato che la tribù degli adolescenti si uniformasse ad un utilizzo sempre più veloce e meno impegnativo in questa nuova tipologia di comunicazione, che induce la massa a dei veri e propri dialoghi fiume virtuali da tastiera a tastiera. E’ stato quindi un processo pressoché naturale quello che ha portato alla sostituzione iniziale della “ch” con la più veloce “k” e del “per” con la più semplice “x”. Ce n’era bisogno? Comunque sia, finché la variante grammaticale riguarda solamente gli sms, credo si possa comprendere ed accettare. Ma dopo la prima fase ecco che, forse per estensione mentale, la “k” prende il sopravento sulla “c” per sostituirla totalmente nell’alfabeto! Ma non si era parlato di velocizzare la scrittura? Una “k” al posto di una “c” cosa cambia? Una lettera al posto di un’altra lettera! E allora?
Mentre mi interrogo sull’utilità e opportunità di questa nuova abitudine, mi accorgo che non finisce qui! O meglio, la tendenza non riguarda solamente gli sms! Una parte degli italiani comincia ad utilizzare questa sostituzione anche in altri contesti dove non se ne capisce l’utilità.
Peraltro la “k” non è l’unica novità: la mentalità del giovane popolo è talmente indirizzata verso la tendenza alla semplificazione da sms da arrivare perfino ad interpretare in maniera scontata ogni segno a forma di “x” come la rappresentazione ovvia della parola o della sillaba “per”.
Celebre è l’episodio che riferisce di uno studente che deforma il cognome di Nino Bixio (noto personaggio della storia italiana legata alle vicende garibaldine) con “Biperio”. Simile e ancor più preoccupante è l’episodio in cui si riferisce di una aspirante magistrato che in una delle prove scritte di partecipazione al concorso per togati, scrisse la frase “veperata quaestio” interpretando la “x” di “vexata quaestio”! Intanto stiamo parlando di un cittadino che ha conseguito una laurea (peraltro in materie umanistiche – giuridiche); inoltre trattasi di un aspirante magistrato, quindi un personaggio che, per formazione e per mestiere, dovrebbe essere esso stesso l’icona della cultura!
Credo che non vi siano dubbi su come questi ed altri episodi rappresentino un triste aspetto del decadimento della cultura nel nostro Paese! Se avevate dei dubbi in merito, ora avete un motivo in più per ripensarci.
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Tempo fa ho assistito ad una querelle fra alcuni sostenitori di questo cambiamento ed altri che, come me, non gradivano ciò. Intanto la prima cosa che mi stupì riguardava il fatto che fra i sostenitori non vi erano solamente adolescenti e giovani ma alcuni personaggi in età da pensione. Proprio uno fra questi ultimi, forte delle sue competenze universitarie in campo linguistico, giustificava il cambiamento col fatto che la lingua italiana si evolve continuamente e questa recente variazione ne è semplicemente un aspetto. Sottolineava come l’utilizzo della “k” fosse ormai divenuto di comune ed universale utilizzo e che nelle scuole italiane il corpo docente ne dovesse assumere consapevolezza, accettandone l’uso da parte degli studenti. Insomma, incalzava costui, la lingua italiana è cambiata, la consonante “c” è quasi del tutto scomparsa e noi tutti avremo dovuto farcene una ragione ed accettare il fatto.
In merito a questa affermazione, dalla quale dissento totalmente, desidero fare una riflessione:
E’ vero che quando un cambiamento diventa diffuso nella società e viene utilizzato da un popolo sempre più numeroso, è difficile stabilire uno spartiacque che individui il momento a partire dal quale tale cambiamento venga universalmente adottato. Nel nostro caso stiamo però parlando della lingua ufficiale di una nazione e, piaccia o no, è qualcosa di codificato! Vale a dire che esiste una riconosciuta ed indiscussa rappresentazione formale-istituzionale della stessa.
A puro titolo di esempio, riferiamoci all’ingresso di tanti nuovi termini (spesso di anglosassone derivazione) nella nostra lingua: dapprima vengono utilizzati da pochi, poi da tanti, poi cominciamo a ritrovarli nella lingua scritta (giornali, libri, ecc.), poi anche nei più apprezzati vocabolari della lingua italiana. Da questo momento, forse, potremo sdoganarli ufficialmente e considerarli come acquisiti? Probabile. Resta comunque intesa l’utilità del nuovo termine.
Ma nel caso della “k”, oltre ad una chiara inutilità del suo utilizzo (ad eccezione degli sms), non si capisce chi ne avrebbe decretato il cambiamento e per mano di chi sarebbe stata sdoganata. Infatti osservo quanto segue:
Non ho mai letto un solo giornale (quotidiano, magazine o periodico di vario genere) che utilizzi tale impiego grammaticale, né ho mai letto un solo libro (di qualunque genere) che faccia altrettanto. Non ho notato un solo giornalista italiano che scriva con la “k” al posto della “c” o del “ch”, né che utilizzi la “x” al posto del “per”. Non esiste nessun documento di alcun Ente pubblico che si sia adeguato a tale forma, meno che mai la Gazzetta Ufficiale ha mai pubblicato alcun provvedimento legislativo redatto con tale sconquasso grammaticale. Inutile ovviamente ricercare tale uso nei più apprezzati vocabolari della lingua italiana. L’uso è invece limitato ad una parte dei giovani, in particolare alla comunità dei social forum e dei social network, che stanno cercando in qualche modo di imporlo.
Ma allora, signori sostenitori della k, dov’è l’avvenuto cambiamento della lingua italiana? Da chi sarebbe stato decretato? Dagli studenti liceali e da qualche aspirante magistrato di accertata crassa ignoranza? Basterebbe questo?
Ma di che CAPPA stiamo parlando?


Chi vuole può liberamente inserire il bannerino qui sopra nel proprio blog e/o sito.
Il codice è:
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giovedì 17 marzo 2011

Evviva, ci sono i vegetariani!

Pubblicato in data 17 marzo 2011 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/


Viviamo in una società che non è certo avara di novità (utili o meno), di nuove tendenze (comprensibili o no) e di abitudini varie alle quali i popoli si uniformano, spesso senza apparente motivo, quando non addirittura in perfetto contrasto con il buon senso (o perlomeno con ciò che i più riconoscono come tale). In alcuni casi si tratta di fuochi di paglia, novità destinate a scomparire dopo poco tempo, spesso ad appannaggio dei giovani alla ricerca di un qualche status nel quale riconoscersi, esigenza dell’età adolescenziale. In altri casi si tratta di tendenze che fanno scuola e vengono sposate da tanti, soprattutto adulti. Da alcuni con profonda coscienza delle proprie decisioni, da tanti senza un ragionevole motivo ma solo perché, appunto, fa tendenza!
Fra le tante nuove tendenze, una in particolare, suscita in me alcuni dubbi ed interrogativi: la conversione alla filosofia vegetariana.
Mi è stato spiegato che in realtà occorre distinguere fra differenti “correnti”, tutte a favore del consumo di frutta e verdura, ma con diversi atteggiamenti nei confronti dei cibi di origine animale. Senza commettere troppe omissioni possiamo semplificare distinguendo i vegetariani dai vegani. I primi escludono dalla loro dieta la carne ed il pesce, i secondi rinunciano anche alle uova, al latte ed ai suoi derivati.
Escluderò dalla mia riflessione coloro che fanno queste scelte esclusivamente per fini salutistici, in gran parte condivisibili, frutto dei saggi consigli degli studiosi, ma forse in qualche misura obiettabili quando si sconfina nei casi di vero integralismo alimentare.
Nulla da eccepire neppure nei confronti di coloro che, per puro amore e rispetto nei confronti degli animali, si professano vegani e adottano le rinunce di cui sopra. Nei confronti di coloro, va la mia massima stima. La loro ammirabile virtuosità non è facilmente emulabile.
Mi piacerebbe invece riflettere con voi le scelte di quei vegetariani che si convertono a tale ideologia per dichiarato rispetto nei confronti degli animali (almeno così dicono).
A scanso di equivoci, voglio ribadire il mio disappunto per qualunque forma di soppressione animale con fine differente da quello alimentare e, a prescindere da questo, se causato in maniera di sicura sofferenza per l’animale. Senza esitazione aborro le torture per testare cosmetici, la vivisezione, anche se praticata per motivi medici, lo scuoiamento di animali vivi per la produzione di pellicce e via continuando. Ancora oggi ricordo di aver assistito da piccolo all’uccisione di suini con metodi da film dell’orrore e di conigli con sistemi da paura. Tutto questo fortunatamente non accade più nei nostri macelli, anche se non si può affermare (almeno credo) che gli animali vengano soppressi a sofferenza zero.
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Come dicevamo, i vegetariani evitano completamente la carne ed il pesce ma consumano tranquillamente latte e uova. Il tutto per avvalorare un malinteso senso di rispetto nei confronti degli animali. Si, lo ribadisco: malinteso!
Infatti il dubbio che mi assale è se costoro siano in assoluta buona fede, condizionati ed inebriati da una società che straparla e riesce a condizionare i più deboli, oppure se anche loro, come gli adolescenti di cui si parlava prima, siano vittime della voglia di apparire, alla ricerca di uno status nel quale riconoscersi. Oppure, ancora, siano semplicemente degli sprovveduti incapaci di valutare autonomamente il reale stato delle cose.
A tal proposito invito i lettori ad una valutazione: avete idea di quali siano le condizioni di vita alle quali devono sottostare le mucche da latte e le galline ovaiole?
Le mucche vengono costrette a trascorrere la loro vita produttiva in spazi ristrettissimi, quasi immobili, con una mangiatoia davanti al muso, due barre di ferro ai lati, indotte alla crescita sproporzionata delle mammelle agganciate alle mungitrici meccaniche. Queste povere bestie, una volta terminata la loro vita utile per la produzione del latte, vengono comunque soppresse, forse macellate come carne da brodo. Infatti nessun imprenditore ovviamente spenderebbe per tenerle in vita senza un tornaconto economico.
Nel caso delle galline ovaiole non vi è tanta differenza. Esse vengono tenute per tutta la vita in gabbie strettissime senza la possibilità di percorrere neppure un metro, vengono indotte alla produzione massima possibile e, alla fine della loro vita riproduttiva, vengono soppresse esattamente come avviene alle mucche, per gli stessi motivi.
Ora a me sorge spontanea una domanda:
E’ più dignitosa e causa minor dolore la soppressione dell’animale da giovane per destinarlo alle nostre mense, oppure costringerlo a vivere un’intera vita in condizioni di estrema sofferenza, senza peraltro evitargli la soppressione che viene comunque solamente posticipata a quando non sarà più in grado di produrre sufficiente latte o uova?
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Non riesco a mandar giù gli atteggiamenti di coloro che si vantano tanto di evitare carne e pesce perché “non è corretto”, salvo poi abbuffarsi di formaggi, uova e latte affermando che “la mungitura è un fatto indolore” e che “le uova vengono deposte comunque, quindi perché non mangiarle?”.
Si, forse nella fattoria di Nonna Papera, o magari in alcuni (purtroppo sempre di meno) “allevatori per uso personale” che trattano gli animali come vorrebbero essere trattati loro. Ma queste sono solo delle rare eccezioni. I prodotti che acquistiamo provengono tutti da allevamenti intensivi.
Inoltre la mia indignazione cresce ancor di più quando mi accorgo che tantissimi fra i sedicenti vegetariani “pro animali”, acquistano portafogli, cinture o borse in pelle! Alla faccia della coerenza e del rispetto per gli animali!
A fronte di tutto ciò, mi assale un ultimo dubbio che voglio esporre con uno slang che “fa tendenza”: ma costoro ci sono o ci fanno?