Pubblicato in data 3 novembre 2010 nel blog: http://giorgiosaba.blog.tiscali.it/
Erano anni che sentivo parlare della tragedia del Vajont ed avevo sviluppato una forte curiosità, che giustificavo come dettata dall’interesse professionale, ma oltre questo era sopratutto un mix di curiosità, stupore e fascino (si, direi quasi fascino). Interesse per una sciagura prodotta da errori macroscopici dell’uomo-tecnico che sfociavano in una sola quanto forse inutile domanda: quanto ciò fosse dipeso dall’errore e in che misura sarebbe stato possibile evitarlo?
Credo che ragionevolmente una risposta esatta non ci sia, c’è però un
monito, un insegnamento che deriva dalla visione di quei luoghi che, anche a
tanti anni di distanza, raccontano una storia, una tragedia annunciata ma
sottovalutata, per incuria, per ignoranza, per presunzione (come quasi sempre).
Ma forse anche la paura di ammettere tardivamente di aver sbagliato ed
accettare di andare incontro alle proprie responsabilità, è più forte della
consapevolezza del rischio al quale si va incontro e ci si affida quindi
inconsciamente ed incoscientemente non più agli insegnamenti della scienza ma
piuttosto alla “speranza” che non accada.
Tralascerò i dubbi e gli interrogativi e proverò a raccontarvi il mio breve
viaggio in quei luoghi mai dimenticati e le emozioni che mi ha creato.
§
Era il sabato di un tiepido novembre del 2005, all’epoca il mio lavoro mi
aveva portato a vivere per qualche anno a Domodossola, insieme alla mia
compagna Egle, la quale, come sempre, mi seguì entusiasta nella mia escursione
al Vajont. Programmammo velocemente il nostro itinerario e, dopo aver prenotato
un alberghetto a Longarone ci incamminammo verso la meta, per circa 470 km, la
maggior parte in autostrada. Il viaggio fu abbastanza lungo per una non stop
pomeridiana come la nostra, ma ne valeva la pena.
Arrivammo a Longarone credo verso le diciannove, era comunque ormai buio e
naturalmente rimandammo la visita alla diga all’indomani mattina. Dopo aver
sistemato i nostri pochi bagagli in albergo, uscimmo per cercare un posto dove
poter mangiare qualcosa ed incappammo in una trattoria molto “alla buona” dove
la gioventù del luogo pare si fosse data appuntamento per festeggiare il sabato
sera. Mangiammo non proprio benissimo ma la simpatia degli avventori e
l’atmosfera familiare del luogo ci misero di buon umore.
Mentre ci incamminavamo verso l’alberghetto (continuo a chiamarlo
affettuosamente così perché fuori dagli schemi classici, ma comunque dignitoso)
sulla nostra destra apparve qualcosa che mi fece da subito esclamare con una
colorita espressione di meraviglia, prontamente contestata dalla mia dolce metà
perché, a suo dire, non ci si deve mai concedere nessun genere di turpiloquio,
neppure per esternare favorevole stupore…
Ma veniamo a noi. Cosa aveva colto la mia attenzione transitando sulla
strada principale del paese, nel buio della tardissima sera, illuminata dai
fari dell’auto e dalla fioca illuminazione pubblica?
Impossibile per me descrivere la sensazione provata in quel momento; avevo
appena visto la diga dal basso, da Longarone, esattamente da quella zona della
valle maggiormente colpita dalla furia dirompente dell’onda che tracimava. In
quel momento provavo ad immaginare ciò che avevano vissuto coloro che in quel
lontano 9 ottobre del 1963 si erano trovati a passare in quel punto, in cui io
stazionavo, negli attimi prima che l’onda si abbattesse sull’abitato e su di
loro, con effetti devastanti.
Restammo lì a riflettere non so per quanti minuti, in silenzio. Infine
decidemmo di proseguire verso l’albergo dove ci attendeva una breve notte di
attesa.
§
La mattina presto, consumata velocemente la colazione, lasciammo
l’alberghetto per dirigerci verso la meta e arrivammo alle pendici della
montagna.
Lo scorcio della diga che la sera precedente avevamo ammirato nelle sue forme
sbiadite e forti allo stesso tempo, alla luce del mattino si presentava ancora
più imponente e maestosa dominando il paese dall’alto.
Una grande opera dell’uomo che avrebbe dovuto formare un lago con una
capacità di massimo invaso di quasi 169 milioni di mc, di cui 150 milioni di
capacità utile (dopo la variante del 1957). Opera che aveva resistito alle
notevoli sollecitazioni derivanti dall’enorme massa di terra e fango che colmò
l’invaso in quegli attimi che precedettero la distruzione dei luoghi sottostanti
e circostanti: si staccarono dalla parete complessivamente 270 milioni di mc di
roccia, che scivolarono nel bacino artificiale sottostante nel quale vi erano
115 milioni di mc di acqua al momento del disastro, che inevitabilmente
tracimarono creando distruzione.
Ecco, la diga, osservata da questo punto di vista sembrava una fiera che se
ne stava tranquillamente seduta a riposarsi dopo aver divorato la sua preda!
Perdonerete il mio paragone un po’ forte e apparentemente irrispettoso, ma
quella era la sensazione che io provavo in quei momenti.
Cominciammo dunque il nostro percorso in salita, seguendo quella stradina
curvilinea ed in parte scavata sulla parete rocciosa che conduceva in cima alla
montagna. Ai lati della strada le luci delimitanti il bordo carreggiata ci
ricordarono il percorso luminoso intravisto la sera prima. Alla fine della
strada, in cima al percorso in salita, si arriva ad un terrapieno dove il sacro
ed il profano sembrano condividere gli spazi: una chiesetta stile moderno
ricorda le vittime della tragedia; alcuni venditori ambulanti propongono libri,
stampe, dvd e quant’altro riguardi la storia del disastro del Vajont. Questa
visione dal tono commerciale distrae per qualche istante facendo perdere il
punto di vista principale: la diga vista dal lato dell’invaso, quasi
completamente colmato dalla frana, perde la sua maestosità. La sommità di una
parte della frana, divenuta terreno stabile, è percorribile per un breve
tratto anche con l’auto, lungo una stradina bianca, che interferisce in maniera
opinabile sulla visione complessiva dei luoghi.
In cima al coronamento della diga, un camminamento consente di osservare nel contempo sia la valle sottostante che le sovrastanti linee di frattura nelle pareti del monte Toc, evidenziando forma e proporzioni della frana.
In cima al coronamento della diga, un camminamento consente di osservare nel contempo sia la valle sottostante che le sovrastanti linee di frattura nelle pareti del monte Toc, evidenziando forma e proporzioni della frana.
Forse chi legge queste righe non percepirà le mie sensazioni, condizionate
anche dal mio punto di osservazione privilegiato: l’interno dell’invaso, teatro
di accumulo della frana staccatasi dalla montagna, quasi completamente colmato
dalla terra. Terra che in qualche modo incarna il ruolo di costola della
montagna segnata per sempre da quella inquietante frattura!
Noterete, fra le fotografie da me scattate in tale occasione e qui allegate, anche la parete del monte Toc, alterata dalla frana. Vi assicuro però che nulla è rispetto alla visione reale dei luoghi, che invito tutti a visitare almeno una volta nella vita, sopratutto chi quotidianamente opera a vario titolo nel campo delle costruzioni.
Noterete, fra le fotografie da me scattate in tale occasione e qui allegate, anche la parete del monte Toc, alterata dalla frana. Vi assicuro però che nulla è rispetto alla visione reale dei luoghi, che invito tutti a visitare almeno una volta nella vita, sopratutto chi quotidianamente opera a vario titolo nel campo delle costruzioni.
Al termine della visita a quei luoghi avremmo voluto percorrere la strada
che costeggia l’invaso per poi visitare anche gli altri comuni interessati dal
disastro. Purtroppo quella mattina vi era una nebbia molto fitta, dovuta
sicuramente anche alla presenza dell’invaso residuo (lago del Vajont),
formatosi a monte della frana a qualche km dalla diga, che ha di fatto
modificato il microclima locale. Per tale motivo ci fu impossibile percorrere
tutta la strada che costeggia l’invaso; né fu possibile visitare il comune di
Erto Casso, anch’esso colpito dalla furia dirompente dell’onda, sia pure in
misura minore rispetto a Longarone, data la sua differente posizione
altimetrica.
Terminato quel breve ma intenso tour nel luogo del disastro ci avviammo quindi verso la via del rientro, ripromettendoci di tornare in quei luoghi per rivisitarli, magari nel periodo primaverile o estivo.
Rientrati a Longarone ci recammo al cimitero dei caduti nel disastro,
all’interno del quale vi sono dei pannelli esplicativi che illustrano la
tragica vicenda con foto d’epoca e testimonianze. La veloce visita al luogo di
culto e commemorazione dell’accaduto fu l’ultimo tassello di quel breve viaggio
di metà autunno.
Poi ci aspettavano altri 470 km prima del rientro a casa.
§
In questo breve racconto non mi soffermo sulla descrizione tecnica della
diga, assolutamente intatta e perfettamente conservata, di altissimo interesse
tecnico. Né racconterò gli eventi che portarono al disastro, peraltro
ampiamente documentati nella vastissima letteratura sul tema. Dopo aver approfondito
la conoscenza degli eventi e dopo la visione dei luoghi, desidero però
evidenziare una riflessione. La tragedia del Vajont è stata uno dei maggiori
disastri del secolo scorso avvenuti in territorio italiano; di sicuro il più
grave fra quelli provocati dall’intervento dell’uomo sulla natura, con le
sue quasi duemila vittime e diversi comuni distrutti.
A pagare realmente furono in pochissimi e comunque con pene inique se
paragonate alla portata ed alla gravità della tragedia.
Il progettista dell’opera (Ing. Carlo Semenza) ed il geologo che si occupò
degli studi alla base dell’ipotesi progettuale e che continuò la sua
collaborazione anche in corso d’opera (Prof. Giorgio Dal Piaz) morirono
entrambi prima del disastro, ma non prima di rendersi conto del possibile
pericolo che incombeva.
A dire il vero il progettista, dotato di enorme esperienza nel campo degli
sbarramenti, aveva responsabilità limitate, infatti calcolò in maniera
impeccabile anche lo sbarramento del Vajont, che non subì nessun danno. Diverse
invece sono le responsabilità sulla scelta del sito, assolutamente non adatto
dal punto di vista geologico e nel perseverare sul completamento dell’opera
nonostante i sintomi di un pericolo imminente.
Vorrei però evidenziare il ruolo di un personaggio, appartenente al team di
coloro che realizzarono l’opera, che morì suicida il giorno prima dell’inizio
del processo che lo vedeva coinvolto in concorso con altri imputati. E’
significativo notare che tale personaggio, Ing. Mario Pancini, era di fatto un
tecnico coinvolto nella mera costruzione dell’opera (nella letteratura
sull’argomento vi sono alcune attribuzioni contrastanti sul ruolo esatto ma
pare verosimile si trattasse del direttore tecnico del cantiere) ma del tutto
scevro da potere decisionale in merito ai provvedimenti da adottare una volta
appurato l’incombente potenziale pericolo. La sua figura è dai più riconosciuta
come “esterna” alle vere responsabilità dell’accaduto ma, come spesso accade,
nell’animo delle persone oneste prevale il senso di responsabilità e di colpa
morale anche quando in realtà non si è potuto far nulla per evitare una
tragedia. Forse l’Ing. Pancini ha pagato il suo essere persona mite e
rispettosa (almeno così ci viene descritto), ma credo che sia l’unico ad aver
“scontato” una pena eccessivamente severa (la morte).
Pena differente per l’Ing. Semenza, deceduto prima del disastro.
Quest’ultimo ha pagato passando alla storia come il progettista del Vajont,
finendo nei libri di storia non come un brillante ed esperto progettista di
dighe, quale egli era, come tale conosciuto in tutto il mondo, ma per vedere
associato il suo nome al disastro del Vajont, pur non essendo il maggior
responsabile.
§
Per chi volesse approfondire la conoscenza di quegli eventi, oltre alla
numerosissima bibliografia sull’argomento, consiglio di visitare i seguenti
siti:
http://vajont.net/
(sito ufficiale a cura del comune di Longarone)
http://www.erto.it/
(sito dedicato al comune di Erto e Casso)
http://www.tinamerlin.it/
(associazione culturale Tina Merlin)
Inoltre vale la pena di vedere il bellissimo film “Vajont” di Renzo
Martinelli che racconta la storia della tragedia, romanzandola con alcuni
dettagli umani che non intaccano la veridicità dei fatti ma ne rendono stimolante
la visione. Lo si trova in versione DVD in tutte le distribuzioni.
Consiglio ancora l’opera teatrale di Marco Paolini e Gabriele Vacis “Vajont
9 ottobre 1963, orazione civile”, una stupenda ricostruzione dei fatti dove
Paolini in oltre due ore e mezza di affascinante spettacolo ricostruisce i
dettagli della tragedia: da non perdere!
Infine, per chi volesse “sorvolare” il Vajont utilizzando google maps, vi
allego il seguente link